La misericordia è un sentimento generato dalla compassione per la miseria altrui (morale o spirituale). Deriva dal latino misericors (genitivo misericordis) e da misereor (ho pietà) e cor –cordis (cuore). È una virtù morale tenuta in grande considerazione dall’etica cristiana e si concreta in opere di pietà o, appunto, di misericordia.
La pietà (dal latino pietas) è il sentimento che induce l’uomo ad amare e rispettare il prossimo. Ci fa sperimentare la tenerezza del Padre e ci fa sentire figli prediletti. “Come un bimbo sereno in braccio alla madre”. Ci da il senso della Divina Provvidenza, che riconosce che siamo figli di Dio e che lui provvede a tutto. “Il Signore non turba mai la pace dei suoi Figli se non per darne una maggiore” (Don Orione). E’ la forza del pentimento dei peccati. E’ l’amore dei figli verso il Padre.
E’ un dono che coinvolge volontà, azione, sentimenti delle persone. E’ una sensibilità del cuore, di quel cuore di carne che Dio ha messo al posto del cuore di pietra. Diventa così importante perché prepara il terreno per tutti gli altri doni. E’ un cuore capace di ascoltare la parola del Signore e far sì che diventi impulso per le azioni.
Insegna a desiderare come Dio desidera. L’uomo diventa figlio di Dio e impara a dire con confidenza e umiltà: Abbà, Padre.
Da questo cuore convertito che si slancia verso Dio nasce la preghiera e il bisogno autentico di rinnovamento.
Questo rapporto con Dio ha conseguenza anche sul nostro rapporto con gli uomini. Ci fa sentire vicini agli altri, fratelli. Sensibili, senza sentirsi migliori perché la pietà porta sempre con sé l’umiltà.
Frutti della pietà sono la preghiera e la solidarietà.
Si evince che i due termini non sono uguali ma si includono l’uno nell’altro compensandosi ed arricchendosi.
La giustizia è del mondo, la misericordia è di Dio. O meglio la giustizia è per l’uomo nel “qui ed ora”. Nasce dal bisogno di regolare la vita e le sue norme si scrivono a seconda del tempo. Si ispira al principio di armonizzare la comunità ricercando il profilo più alto dell’identità umana, nel rispetto dei bisogni fondamentali tra cui il rispetto reciproco.
La giustizia di Dio costringe a staccarsi dall’esperienza terrena e ad entrare in un grande paradosso: il perdono. L’Io non conosce questa dimensione se non per mediazioni provenienti dalle elevate possibilità della natura umana di trascendere la propria animalità. Si, come nell’uomo di tutti i tempi esiste il bisogno di giustizia, esiste anche il bisogno di essere perdonati. Nessuno può sfuggire a questa verità poiché nessuno è perfetto.
Il cuore di Dio è intriso di misericordia. La Sua misericordia non è quella misurata con i criteri dell’orefice; un bilancino che misura al milligrammo il bene ed il male. Neppure quella che volge al confronto aritmetico tra il passivo e l’attivo della vita arrivando al punto di cancellare con un colpo di spugna tutto il bene compiuto a causa di una sola trasgressione. Un unico atto che distrugge una intera vita lasciando che prevalga il male ultimo. Invece la giustizia e la misericordia di Dio arrivano addirittura a capovolgere questo criterio facendo prevalere il bene “ultimo” sul male di una vita.
Il susseguirsi di micro e macro conflitti costringe, nostro malgrado, i due concetti di giustizia dell’uomo e di misericordia di Dio a confrontarsi obbligandoli a trovare una risultante che onori le istanze dell’una e dell’altra parte.
La Chiesa di oggi si trova nella drammatica ed ineludibile contingenza di dover prendere atto di questa amara verità, usando anche gli strumenti di una giustizia normativa che risponda ai criteri del mondo. Ma come accedere a questa necessità senza abdicare al suo mandato di essere interprete della misericordia di Dio e messaggera d speranza anche per il peggiore degli uomini, come si attendono tutti i fedeli e i ”confessori della fede”?
Forse è arrivato il momento di dare una risposta certa. Tutto sommato anche il concetto di giustizia e di misericordia del mondo laico porta in sé un seme di saggezza e lungimiranza (se applicato). Magari legato alle contingenze di un periodo storico, molto diverso, come è ovvio, dalla giustizia e misericordia visti in chiave escatologica, ma ugualmente dignitosa e valida. Basti vedere quanti giovani e meno giovani sono stati aiutati a risollevarsi, dopo cadute anche mortali, da una magistratura capace di vedere oltre la scena del crimine. Giudici capaci di compiere il nobile passaggio dalla certezza della pena scontata alla totale riabilitazione. Persino agli assassini è stata data questa possibilità.
Infatti la giustizia integrata con un senso alto di misericordia, senza essere coscienti interpreti, si fonda su un residuale divino che risponde alla domanda: “Chi è degno di misericordia?”.
Qui appare la sostanziale differenza tra una visione laica ed una cristiana. La trappola del relativismo laicista ci fa notare che questo bene non è per tutti. La “misericordia” per gli “amici” può lasciare presto il passo alla “ferocia” per i “nemici”. Si assolve o si giustizia a seconda di criteri molto personali.
Diversa è la misericordia e la giustizia di Dio, dove non esistono i nemici. Nessuno può considerarsi non degno della misericordia di Dio e dell’attenzione di chi desidera con purezza di cuore farsene interprete.
Tutti sono uguali sia che si tratti di un “proprio figlio” che del “figlio del nemico”. Per la Chiesa non esistono figli e figliastri, ed anche o figli dei suoi detrattori hanno diritto a ricevere consolazione e speranza.
Non è richiesto che la prospettiva della giustizia dell’uomo debba cambiare, ma è necessario, per non cadere nel giustizialismo barbaro, che confluisca in quella di Dio, solo così il principio che “la giustizia è uguale per tutti” viene onorato.
Purtroppo quello che appare invece è la tentazione del contrario, cioè di forzare la giustizia di Dio in quella dell’uomo dimenticando lo specifico del mandato evangelico.
La Chiesa deve rispondere certamente alla necessità che la reità venga colpita perché non debba mai più ripetersi, ma non deve clonarsi, replicare ciò che già è certo. Deve rappresentare un valore aggiunto per tutti coloro i quali sbagliano e pagano.
Solo così la pena, come recita anche il diritto, diventa occasione di redenzione per tutti, per la società che accusa e per il reo. E’ un diritto per l’una e per l’altro.
Una siffatta visione delle cose mette in luce, giammai una divisione, ma ricchezza frutto di sinergia, che però chiede innanzitutto il rispetto degli ambiti di azione in una prospettiva in cui la Chiesa che fa propri i bisogni di giustizia del mondo sia lasciata libera di restituire la speranza e l’amore di Dio.
Nessuno deve e può vietare questo passaggio. Così come nessun giudice dovrà mai puntare il dito verso i genitori che continuano ad amare ed accogliere il figlio che ha sbagliato, allo stesso modo nessuno si azzardi oggi a spacciare per complicità e connivenza, o peggio che mai per superficialità, il mandato di amore della Chiesa per tutti i suoi figli, che compiono errori anche gravi, siano essi in doppiopetto che in talare. Ugualmente non venga sbeffeggiato e messo in discussione il dolore di una famiglia in cui già si vive il dramma e la vergogna.
E’ mia opinione che il tempo del giustizialismo debba lasciare il passo al tempo della piètas, aldilà di ogni implicazione confessionale.
Il sentimento della piètas eleva e armonizza i sentimenti umani. Si eleva in quanto la comune condizione creaturale ci mette tutti nella pari dignità di figli Dio. In quanto fratelli, oltre le differenze, deve farci assumere il destino del fratello più che compierlo in maniera delittuosa.; li armonizza in quanto tutti siamo nella condizione di avere bisogno di un gesto di pace e di perdono. Tanto basta! (Roma 2016)