Gentilissima Onorevole Segre, Cara Liliana,
sto vivendo, come tutti del resto, la tristissima situazione della crisi mediorientale alternando approfondimenti e raccogliendo più informazioni possibili.
Sono giunto ad una sintesi personale frutto di esperienza di vita. Ho settantaquattro anni, sono un Tenente Colonnello dell’Aeronautica Militare in pensione, da 47 anni svolgo anche la professione di psicoterapeuta ed infine da 29 sono un diacono Permanente della Diocesi di Roma.
La breve presentazione della mia persona non è per vezzo, ma semplicemente per aiutarla a inquadrare i contenuti che seguiranno.
Nella mia storia ho vissuto la Shoah come se fosse stata sulla mia pelle. Sono andato due volte ad Auschwitz dove non sono mai riuscito a trattenere lacrime e provare angoscia. La prima volta era il 1991 ne sono uscito devastato. Le immagini degli oggetti ammonticchiati, la lucida follia dei forni crematori, mi hanno portato a toccare con mano fino a dove possa arrivare la cattiveria umana cui non sono riuscito a dare risposta. Da diacono ho sempre approcciato alle nostre comuni radici religiose con rispetto cercando sempre ciò che ci potesse unire e non certo quello che ci poteva dividere.
Ora però sono nella totale confusione! La Laurea in Science Religiose, l’esperienza militare, la conoscenza dell’animo umano mi conduce a inquadrare lo scenario attuale osservandolo da più punti di vista: religioso, politico, militare e psicologico. E sulla base di questa esperienza che mi rivolgo a Lei.
La Shoah come fatto storico è inconfutabile e irreversibile. Ciò che è stato è impresso nella memoria di tutti, sia di coloro che lo hanno vissuto sulla propria pelle come Lei, sia di quelli che ne hanno appreso le nefaste conseguenze nei racconti.
Stante ciò mi permetto di porre alla Sua attenzione una riflessione sul termine “Memoria”. Dal punto di vista psicologico posso affermare che l’uomo senza memoria è un uomo la cui esistenza è a rischio in ogni istante. Ma nel caso della Shoah gli effetti della memoria di quel tragico tempo non sono gli stessi. Va fatta una distinzione: la memoria di chi l’ha vissuta in prima persona è indelebile e non richiede di essere sostenuta, lo fa da sola per tutto il resto della vita. Ho conosciuto personalmente il Rabbino Toaff con cui ho avuto una bellissima conversazione che non ha fatto che rinsaldare il senso del nostro comune DNA religioso che non dipende da noi ma dal Creatore. Non ho mai sentito da lui parole di acredine e di odio per gli aguzzini che alla fine si sono condannati da soli e se la vedranno con Chi dovrà giudicarli.
Ma i giovani ebrei di oggi, così lontano da quel tempo, ma anche i meno giovani, che non hanno odorato neanche da lontano la puzza di morte del campo di sterminio, che cosa ne faranno della memoria e di quanto narrano i padri o i nonni? Come attecchirà in loro e quale saranno le loro reazioni?
Qui comincia il mio distinguo! Gli oggetti della memoria di fatti vissuti e quelli dei fatti raccontati pur essendo gli stessi non conducono alla stessa reazione psicologica. Quelli raccontati, lo vediamo in tutti i contesti geopolitici sono mediati da emozioni forti nel “qui e ora”, prima fra tutte è l’odio e la vendetta. Questo vale per tutti quei popoli costretti nel passato a subire le più barbare persecuzioni.
Quello che sta avvenendo nell’attuale conflitto tra Israele e Hamas (e palestinesi compresi) è quanto mai emblematico. Nella storia dei Palestinesi, gente disarmata, bambini, donne, su cui ancora oggi si sta riversando una ingiustificata violenza (non sono io a dirlo ma voci autorevoli da tutto il mondo, compreso una parte di Israele) che non può non riportare alla memoria ciò che accadeva a Varsavia all’inizio della persecuzione degli Ebrei. Non riesco, anche sforzandomi, a vedere differenze se non andando pescare in una visione ideologica della storia che come ben sappiamo in gran parte si costruisce sulle menzogne come è stato allora da parte dei nazisti.
In quel tempo buio al popolo tedesco l’entourage nazista aveva fornito elementi verosimili per giustificare la logica razzista e omicida, riuscendo al minimo a conquistare l’indifferenza. La gente ha aderito diventando complice di efferatezze anche se non compiute personalmente.
Il Governo israeliano oggi, allo stesso modo, sembra utilizzare la stessa strategia utilizzando elementi ideologici, supportati dai tragici e cruenti fatti del 7 ottobre, per giustificare un’azione militare che sembra moltiplicarne gli effetti sulla popolazione civile palestinese (dati numeri non si può parlare di più di effetti collaterali) coinvolgendo tutto il popolo di Israele, i giovani soprattutto, in una complicità su qualcosa di cui forse non ne sono pienamente a conoscenza.
Lo stesso avviene dall’altra parte finendo per promuovere un futuro di decenni di ritorsione e di violenza.
Io sono convinto che la parola pace può arrivare credibile agli Israeliani e ai palestinesi solo da chi, per sensibilità e storia personale, è capace di uscire dalla trappola dell’ideologia e si sente libero, come lo sono moltissimi intellettuali israeliani e palestinesi, per smascherare le menzogne e le ideologie sottese in menti torbide capaci solo di indurre disperazione, rabbia e vendetta.
La sua persona è sicuramente una figura autorevole per lasciare quale preziosa eredità, ai giovani israeliani il grande amore per la pace. Concludo dicendo, sono convinto che concorderà, che non potrà mai esserci pace se non vi è giustizia. La pace e la giustizia sono figli di una grande madre: la verità.
La prego signora Segre, con il cuore in mano, insieme alla bella eredità, umana, politica e culturale che lascerà a questo Paese che tanto l’ama, lasci anche questa.
Con grande stima e affetto
Marco Ermes Luparia[1]
[1] M.E. LUPARIA, Diacono Permanente, Psicologo Psicoterapeuta, Presidente dell’Apostolato Accademico Salvatoriano
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